SANTA LUCIA

E' una frazione di Sessa Cilento che si presenta come un insieme di abitazioni allineate sulla cima di una collina. Le sue origini sono molto antiche, risalgono all'anno 1000 infatti il borgo è caratterizzato da viuzze, archi e case in pietra tipicamente medioevali. La chiesa dedicata a Santa Lucia, risale al ‘300 ed in suo onore il 13 dicembre si celebra una festa liturgica molto sentita sia dagli abitanti del paese che da quelli dei comuni vicini.

SCORCIO DEL CENTRO STORICO

VEDUTA DEL BORGO

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CHIESA DI SANTA LUCIA

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LA CONFRATERNITA

VEDUTA DEL BORGO


 Da un prezioso documento dell'Archivio cavense si apprende che in data imprecisata, ma certamente prima del 1027, i principi Guaimario IV e il coreggente figliuolo Guaimario donarono a dieci famiglie «fidelibus nostris ecclesiam vocabulum sancte lucie, que constructa est in lucanea, locum qui dicit nuciniano pertinentiis sacri nostri palatii», con l'obbligo dell’identico servitium cui erano tenuti gli homines di Lustra e di Torchiara. Orbene, se pure la chiesa era sorta isolata nei pressi di un nocelleto, il dono da parte dei principi della chiesa e sue dipendenze alle dieci famiglie longobarde, ben può ritenersi l'atto di nascita del villaggio di Santa Lucia. Ma che nel luogo vi fossero senz'altro abitanti si rileva dal verbale di un placito presieduto dal conte Raidolfo nel 1034 a Fragina. L'igumeno Brancati di S. Giorgio diede all’igumeno Aresti di Santa Maria di Terricelle come garanti Giovanni Capialbo di S. Lucia e Giovanni di Ursina di Novi.

Si è detto che la mancanza di ogni cenno del villaggio nel placito del 1083 escluderebbe l'esistenza della stessa chiesa. Ma, a parte l'inedita documentazione di cui sopra, è evidente soltanto che l'Abbazia non contava famiglie soggette nell'abitato sorto intorno a quella chiesa che solo dalle lettere di Urbano II risulta in possesso della Badia.

Nel Concilio di Melfi (10-15 settembre 1089), Urbano II compose la vertenza sorta tra l'abate di Cava e il vescovo di Paestum Maraldo che asseriva che la Badia «in suis iuris episcopatu iniuste retineret» chiese e monasteri. Dell'avvenuta conciliazione il papa tenne ad avvertire «omnibus clericis et laicis salerni degentibus» con una lettera in cui è cenno della «ecclesiam sancte lucie», come ne è notizia nella seconda, e da Venosa, dove, nel prendere «in specialem apostolica sedis tutelam protetionemque» il monastero cavense, il papa elencava tutte le chiese, monasteri e celle dipendenti dalla Badia. In questi elenchi, però, non è cenno di villaggi soggetti. Nè poteva esservene, perché i pontefici potevano intervenire nelle questioni giurisdizionali, come nelle lettere da Melfi, riconoscere il possesso di monasteri e chiese comunque pervenuti alla Badia, ma non confermare possessi non ecclesiastici, tanto più in territori dove non avevano potestà politica, eccetto gli eventuali abitati donati da enti ecclesiastici su terre di loro proprietà.

Pasquale II confermò nel 1100 all'abate Pietro «ecclesiam S. Marie cum casali suo», ma si affrettò subito ad aggiungere «quod a te edificatum est». Così Eugenio III che nell'accennare al medesimo villaggio  nei pressi dell'Abbazia di Cava, chiarisce «quo a vobis [abate cavense] edificatum est».

Del 1092 è la vendita fatta da Orso, figlio del fu Pietro, che dichiarò di possedere beni a S. Lucia pervenutigli dal padre, al quale erano stati dati dalla moglie Letizia, figlia di Guisenolfo. Beni venduti a Giovanni, figlio del fu Lamberto, di Capaccio per 12 soldi d'oro in ragione di 4 tarì per soldo. Sul possesso di questi beni si accese poi una lite tra il monastero di S. Mango e il suddetto Giovanni. Infatti, nel 1094, l'abate Pietro di Cava, trovandosi a S. Mango per una delle sue periodiche ispezioni a cenobi e chiese dipendenti, promosse un giudizio, innanzi al giudice Lando, contro Giovanni di Capaccio per essere abusivamente entrato in possesso dei nei terreni di proprietà del cenobio di S. Mango che facevano parte del «preceptum sancte trinitatis» e cioè dell'omonima concessione fondiaria. Giovanni obiettò di aver regolarmente acquistato il terreno per 26 soldi. L'abate conciliò subito la vertenza inducendo il convenuto a cedergli l'atto di acquisto per la somma di 26 soldi che disse di aver pagato, mentre in effetti ne aveva versati solo 12.

Nella nota delimitazione dei confini delle rispettive proprietà tra l'abate cavense Benincasa e il giustiziere Guglielmo di Sanseverino, il circuito della proprietà della chiesa di S. Lucia cominciava dalla serra di Sessa, discendeva verso il fiume che veniva da Valle (Cilento), ne seguiva il corso fino al vallone che veniva da Omignano, saliva fin presso il villaggio di Sessa volgendo poi a sud del medesimo villaggio fino al primo confine.

Nel 1238 il monastero concesse a un locale la metà di un mulino sito nei pressi di S. Lucia, «quod dicitur de isca», per tre anni e per tre tarì annui. Nel 1239 parte del predetto mulino venne venduta da Giovanni e Nicola di Gubiano a Nicola e Giovanni Pagano, «reservata sibi tota molitura per domibus suis». Nel Registro dell'abate Tommaso è notizia della rendita dei beni della Badia siti a S. Mauro e a S. Lucia.

Anche nel processo del 1276 è menzione del villaggio di S. Lucia dipendente dal castello dell'abate, come assicura anche il Mazziotti, il quale scrive che il villaggio ancora nel 1309 apparteneva alla Badia per essere stato incluso, a richiesta dell'abate, tra quelli che poi ottennero riduzioni fiscali per danni subiti durante la guerra angioino-aragonese. In questo periodo il villaggio venne concesso ai Capano che lo possedettero a lungo.

Nel 1485 Antonello invitò Berzano Capano a prendere parte alla congiura dei baroni ricevendone un rifiuto. Antonello lo spogliò anche del feudo di S. Lucia, restituito da re Ferrante (1488) al figlio Giovanni Capano. A costui successe il principe Francesco, al quale i Sanseverino tolsero il feudo di S. Lucia per concederlo al castellano di Castelnuovo di Napoli, Luise Pescione. Costui tra il 1517 e il 1523 lo alienò a favore di Antonio Vaccaro di Napoli «con case, cerri e trappeti e lo feudo nominato Bonanotte et quarta parte del feudo nominato Nuce». Vendita confermata da Ferrante Sanseverino.

Dal Giustiniani si apprende che il feudo passò poi alla famiglia Santoro. Nel 1614 Camillo Santoro lo donò alla figliuola Isabella in occasione del matrimonio con Antonio Sergio. Nel 1628, però, era passato alla famiglia Pellegrino, se Cornelio lo vendette a Ottavio Falliero per d. 3000. Nel 1632 costui lo vendette per d. 3880 a Tommaso Cuccolo, che a sua volta nel 1634 lo vendette per d. 6000 a Cesare di Tommaso. Dal Cedolario si apprende che Tommaso Criscuolo, presidente della Regia Camera della Sommaria, con Regio assenso del 28 febbraio 1754, acquistò il feudo di S. Lucia da Aniello de Vicariis, il quale si riservò il titolo di marchese che possedeva sul feudo. Da Tommaso Criscuolo alla sua morte (13 novembre 1786), in mancanza di prole maschile, il feudo passò (8 agosto 1787) per refuta e successione alla primogenita Isabella consorte di Francesco Sifanni. Ma Isabella morì senza prole nel 1813, per cui il feudo passò alla sorella Vincenza, poi sposa di Gerolamo Vassallo, i cui successori continuarono a fregiarsi del titolo di baroni di S. Lucia.

Il Giustiniani colloca I'abitato in una valle a 44 miglia da Salerno e scrive che i suoi pochi abitanti erano tutti dediti all'agricoltura.

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Dal 4 al 6 agosto Santa Lucia di Sessa Cilento

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