Frazione del comune di Castellabate, interamente immersa nel Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni.
Un piccolo e suggestivo borgo posto ai piedi del monte Licosa al centro di una vasta area di macchia mediterranea che si estende fino al mare:tre chilometri di costa, storia, leggenda e paesaggi mozzafiato. Punta Licosa dista solo 200m da Licosa e rappresenta il tratto di costa che delimita il Golfo di Salerno insieme a Punta Campanella.
Secondo alcuni il nome Licosa deriva da Leucosia che per Dionigi di Alicarnasso (storico nato intorno al 60 a.C) sarebbe una cugina di Enea, morta nello stesso luogo che porta il suo nome.
Altri studiosi invece, sostengono che il nome Licosa sia da far risalire ad una delle sirene che tentò di incantare Ulisse. Questi si fece legare all’albero di maestra con dei tappi di cera nelle orecchie per non ascoltare l’ingannevole canto delle sirene.
Licosa è un territorio meraviglioso dal punto di vista naturalistico è altresì ricco di testimonianze storico- archeologiche comprovate dal ritrovamento dei resti di antichi insediamenti risalenti forse all’XI-X secolo a.C.
Murature appartenenti forse a una villa romana e a una peschiera, rocchi di colonne e tombe attestano la presenza umana fin da epoche antichissime. Il feudo di Licosa è stato da sempre alle dipendenze del Castello dell'abate, costruito nel 1123 da Costabile Gentilcore e amministrato nei secoli dagli abati benedettini della Badia di Cava o dal feudatario di turno.
A Licosa nel mese di luglio si organizza un suggestivo ed esclusivo concerto sull’acqua da non perdere.
Il toponimo richiama la leggenda delle sirene, Partenope, poi eponima di Napoli, Leucosia e Ligea, una delle quali diede nome all'isoletta davanti a Punta Licosa, l'antico promontorio Enipeo di Licofrone e Posidio per Strabone.G. Diacono, nella sua Cronaca, ricorda che nell'anno 845 una spedizione araba assalì le isole di Ponza e di Licosa a cui seguì la spedizione del duca napoletano Sergio.
Il Guillaume afferma che «la Licosa», presso Castellabate, era una «bourgade» concessa nell'agosto del 1080 da Roberto il Guiscardo alla Badia, il cui dominio temporale venne perduto nel 1410. Nel 1090, Riccardo, «cognomento senescalcus», figlio del fu Drogone, dichiarò di aver ricevuto «per domnum Roggerium, gloriosum ducem, omnes res» che erano state confiscate («infiscate sunt») a Giovanni, figlio del conte di palazzo Truppoaldo e al figliuolo, «in locis trissinum et staynum et licose». «Divina gratia inspiratus» Riccardo, presente lo stesso duca Ruggiero, offrì al monastero cavense tutti i suoi beni esistenti in Lucania e quanto gli spettava «de tota ecclesia sancti angeli in eodem loco tyrisinum constructam».
Nel 1109 nel monastero cavense, alla presenza del giudice Pietro, Glorioso, figlio del fu conte Pandolfo, decise di porre fine alla vertenza con il monastero circa «rebus stabilibus» che erano state del conte Mansone, fratello dello stesso Pandolfo. Beni ubicati a Licosa, Tresino e a S. Zaccaria e tutti nel territorio di Cilento a li Lauri. Il conte Glorioso riconobbe quanto asseriva l'abate Pietro e cioè che Mansone e il figlio Gisulfo avevano offerto all'abate Pietro la quarta parte del monastero di S. Zaccaria.
Il Ventimiglia ricorda poi che Glorioso durante la sua ultima infermità dispose (a. 1112) che alla sua morte il figlio Simone, nel provvedere a farlo tumulare nel monastero cavense, donasse al suddetto monastero la terza parte del monte Licosa oppure cento SOLDI.
Con una successiva donazione (a. 1113) anche le altre tre parti del monte vennero donate al monastero, compresa la parte di Emiliana, moglie del conte Glorioso.Nel 1114 Landolfo, figlio del conte Mansone, e i fratelli Guido e Alessandro, figli del fu Gisulfo, poi monaco i cui resti vennero tumulati nel monastero cavense, dichiararono che il rispettivo loro padre e avo «pro amore omnipotentis dei et pro salute animarum suarum» avevano offerto al monastero cavense la quarta parte del monastero di S. Giorgio, costruito nel distretto di Cilento, «illa parte fluminis quod dua flumina dicuntur», e la quarta parte del monastero di S. Zaccaria dei Lauri.
Tutto ciò insieme a quanto il predetto Mansone possedeva ad Acquavella, Licosa, Tresino e Staino. Licosa è sempre menzionata nei documenti riguardanti Tresino. Ne è cenno anche in un interessante documento del maggio 1185. Gismondo di Rocca Romana, figlio del fu Andrea, signore di quel feudo, dovendo seguire il re in una impresa bellica e «timens ne ibi intestatus decederet», alla presenza del giudice Giovanni e di altri, dispose che la proprietà sua e del fratello Andrea, tra cui la terza parte di tutte le terre lavorative possedute «ubi proprie teresino et licose dicitur», venissero trasferite al monastero cavense «si ipso gismundi in ipso exercitu, ut dictum est decederet».
Nell'ottobre del 1189 Orso di Mansella vendette al monastero cavense terre site nel tenimento di Cilento «in loco licosa» per 50 once d'oro. Nel novembre del 1193, Filippo, «qui dicitur princeps» con il consenso dell'abate cavense concesse in enfiteusi l’intera metà delle terre possedute dal monastero «prope ecclesiam s. marie de licosa» a Giovanni detto Fasano, figlio di Costantino, e a Pietro, detto Cicari, figlio del fu Orso.Nel Regestrum dell'abate Tommaso è menzionato un versamento a Ferri di tarì d'oro «pro emendo bove uno pro campo Licose» da parte di Giovanni di Santoro.Che a Licosa vi fosse un abitato fortificato si rileva dai Registri Angioini. In castro Lycusii vi erano depositate 27 salme di miglio che dovevano essere aggiunte al miglio esistente in altri luoghi fortificati per complessive 1670 salme e 4 tomola. È pure notizia che il mercante Giovanni di Forno di Ravello, nel tornare dalla Sicilia su una barca di Gaeta, mentre si avvicinava «ad locum qui dicitur Caput Nicose Punta di Licosa iuxta casale Pissotte», fu preso, ferito e rapinato («abstulerunt ei more piraticum») di 42 once d'oro e di altri effetti del valore di 35 once da alcuni pisani che erano ivi con una «barketta armata». Il mercante perciò supplicava il re di fargli restituire il mal torto.
Re Carlo ordinò di provvedere a che ciò non si verificasse più e di consegnare al malcapitato «quantitatem pecunie et valorem rerum mobilium».È inoltre notizia che durante la tregua, nel corso della guerra angioino-aragonese, gli amalfitani Masino e Pagano con un galeone armato assalirono Gualtiero Orlando di Castellabate e la sua barca, liberandolo solo dopo il pagamento di 31 once d'oro.
Poi assalirono, presso Licosa, Giovanni Maniteo, proveniente dalla Sicilia, con la sua barca colma di vettovaglie diretta a Castellabate, spogliandolo di tutto. Il principe Carlo ordinò di far risarcire i danni subiti dai due amalfitani e provvedere che tali cose non si verificassero più.
Nel 1696 alcuni cappuccini volendo costruire sull’isola un ospizio per i frati che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria rinvennero resti di materiale laterizio e una necropoli. L'isola fu detta anche “Petra”, perché è un nudo scoglio.L'Antonini scrive che a Licosa, come a Castellabate, Socia, S. Mauro, Galdo, Celso, Pollica crescesse «abbondantissimo» lo zafferano. Egli ricorda anche che vi si rinvennero monete e che forse Simmaco vi possedeva una villa quando fu correttore della Lucania (a. 365) ai tempi del primo Valentiniano.Nel 1622 Licosa fu occupata dai corsari di Biserta.
Alla fine del '700 era posseduta dalla famiglia Granito, dei marchesi di Castellabate.Oggetto di una pluridecennale contesa giudiziaria tra la famiglia Belmonte e la famiglia Boroli, proprietaria della De Agostini. Al termine di questa lunga contesa giudiziaria il Promontorio, nel 2007, è tornato di nuovo a far parte del patrimonio della famiglia Granito di Belmonte.
LATITUDINE: 40.2492087
LONGITUDINE: 14.910870799999998
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